giovedì, novembre 19, 2009

Rio Tinto


Il nome non è certo di origine africana, e neppure si tratta del nome di un fiume o di un torrente. Vi domanderete allora che relazione ha con Babonde? E’ il nome di una delle più grandi società minerarie del mondo (la terza) e si occupa di ricerca, estrazione e lavorazione di minerali, e da qualche mese ha fatto la sua apparizione nella foresta dell’Haut Uele e quindi anche nella foresta di Babonde. Società anglo australiana alla ricerca di nuovi siti di sfruttamento per i decenni a venire. Per il momento si tratta semplicemente di esplorazione, in vista di conoscere se domani “il gioco varrà la candela”, ossia se le ricchezze del sottosuolo sono tali da giustificare gli investimenti necessari, che comunque anche al momento sono notevoli: missioni di geologi inglesi per lunghi periodi a prelevare campioni un po’ dovunque su una superficie di territorio vastissima. Rilievi geografici ed idrici coadiuvati da una mappatura fotografica presa da un aereo che per più di un mese ha sorvolato tutta la zona suscitando prima scompiglio e paura, poi meraviglia ed interesse da parte della popolazione locale. Una possibile azienda che si possa installare nel territorio fa nascere speranze molteplici: la sistemazione delle infrastrutture stradali, la creazione di impiego, la corrente elettrica, un ospedale attrezzato… ma anche i dubbi sulle ricadute negative di una trasformazione radicale del territorio, corruzione, spoliazione delle risorse.
Rio Tinto per il momento sta solo esplorando e la ricerca non sarà breve, certo è che il destino di queste zone di foresta non dimora nelle mani della popolazione che da secoli la abita, ma da molti giochi ed interessi che saranno conosciuti solo a posteriori. Rio Tinto sembra un’impresa seria e noi lo speriamo, ma giusto per completare l’informazione riguardo a quante cose girano attorno al mondo dei minerali incollo sotto un articolo scritto di recente riguardo alla vicina regione dell’Ituri sempre nella repubblica democratica del Congo, confinante con la nostra. Ciao e buona lettura.

Minerali


Multinazionali e aziende minerarie alimentano le violenze che da anni attraversano le regioni orientali della Repubblica democratica del Congo, causando la morte di civili innocenti: è l’accusa, corredata di informazioni e dati dettagliati, contenuta nel rapporto diffuso dall’organizzazione non governativa (ong) inglese Global Witness, secondo la quale tra le aziende in questione figurano imprese europee e asiatiche tra le più importanti del settore. Nel rapporto, dal titolo “Di fronte a un fucile, cosa si può fare?”, Global Witness spiega come le aziende in questione si facciano rifornire da mediatori locali che a loro volta finanziano gruppi armati che controllano ampie porzioni di territorio nell’est del paese. Sulla base di indagini condotte sul terreno e presso i vertici delle società minerarie, l’ong ha potuto appurare che “nonostante siano avversari sul campo di battaglia, gruppi ribelli come le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr) e l’esercito nazionale congolese cooperano regolarmente spartendosi i territori e i bottini grazie alle loro attività di commercio illegale”. Secondo gli autori dell’inchiesta, “nonostante i recenti sviluppi politici, in particolare il riavvicinamento tra i governi di Kinshasa e Kigali, la violenza perpetuata nei confronti dei civili non accenna diminuire nel Kivu, dove tutti belligeranti ricorrono sistematicamente e pratiche di lavoro forzato e riduzione in schiavitù ai danni degli abitanti delle zone minerarie”. Global Witness aggiunge che “il fatto che i governanti locali non esigano che le aziende operanti sul posto presentino regolarmente i conti delle loro atttività, che il Rwanda e il Burundi non controllino i trasporti alle loro frontiere e che i diplomatici non si occupino direttamente di accordi e operazioni minerarie, sono tutti elementi che favoriscono il perpetuarsi di un conflitto che negli ultimi 12 anni ha già causato la morte di migliaia, se non milioni di persone”.
Per le aziende in questione, tra le quali figurano sussidiarie locali della britannica Amalgamated Metal Corporation (Amc) e la tailandese Thaisarco, veri ‘giganti’ del commercio di oro, stagno, coltan e cassiterite, Global Witness chiede l’applicazione delle norme Onu e delle sanzioni invocate in diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza per chiunque sostenga, attraverso il commercio illegale di risorse minerarie, i gruppi armati congolesi.

mercoledì, novembre 18, 2009

Settembre, Rientro


Viaggiamo verso Isiro, è senza dubbio particolare perchè saremo insieme a due ospiti Italiani, Sonia Mansutti e Riccardo. Ebbene sì, dopo anni ed anni anche Babonde ha visto i suoi stranieri. A dire la verità sono solo di passaggio da noi, in provenienza da Wamba e con destinazione Isiro, li abbiamo accolti molto volentieri per un paio di giorni, riattizzando l'idea di un qualche gemellaggio tra Italia e Congo, per simpatizzanti della missione (sia pure di breve ma intenso periodo). Sonia è presidente di un'associazione di Padova e Riccardo è un elettricista, sono in Congo per promuovere qualche progetto ed in particolare la conclusione dei lavori per la costruzione di una clinica olftamologica (cura degli occhi, nello specifico). Cercheremo di rimanere in contatto così che il progetto "Occhiali per l'Africa" della Scuola Missionaria possa eventualmente dare e ricevere contributo. Parlare un pò di veneto fa del bene, così anche la rassomiglianza culturale, fa riposare la testa per qualche giorno. Qualcuno se la sente di programmare un periodo da queste parti?
E' ripreso l'anno scolastico e poco a poco le scuole riaprono i battenti, con una certa puntualità nel centro, ma con due, tre o quattro settimane di ritardo nei villaggio periferici. D'altra parte alcune classi sono da ricostruire, i banchi fatti di mezzi tronchi sono da fabbricare, il terreno da gioco è oramai invaso dalle erbe, per cui molti giorni saranno dedicati alla "Educazione al Lavoro", una materia che 'tira' e che la farà da padrone in queste prime settimane. Per molti genitori è nel giorno stesso del rientro scolare che scocca l'ora della ricerca del necessario (soldi per l'iscrizione, acquisto dell'uniforme e dei quaderni, il "premio" per gli insegnati non pagati dallo stato) e quindi il ritardo si fa inevitabile. Scherzando c'è da chiedersi se la mancanza di un deposito bancario per far fronte a questa e a mille altre emergenze è causata dalla quasi inesistente cultura al risparmio, dal vivere giorno per giorno, dalla penuria cronica di soldi, dalla mancanza di Banche (strutture organizzate per gestire il risparmio)... Probabilmente tutto questo insieme a molto altro che ancora mi sfugge, fa si che l'improvvisazione sia un ingrediente quotidiano con cui "condire il problema del giorno".
Alessia (nome di fantasia) è stata promossa lo scorso giugno, anche se i suoi responsabili avevano deciso di farla bocciare in modo da "montare il caso". Avviene infatti ogni anno che per passare l'esame una insegnate chieda a tutti gli studenti della sua classe, indiscriminatamente, una quota di denaro, con la penale della bocciatura per chi non paga. Alessia non aveva questo denaro e in lacrime si era perciò rivolta ai suoi responsabili, che stanchi ed indignati del continuare a sentire episodi di corruzione in ambienti che dovrebbero essere votati all'educazione , avevano invece deciso di non pagare, progettando di smascherare pubblicamente l'insegnante, visto anche che il direttore della scuola, pur a conoscenza dei fatti non aveva intenzione di intervenire. A sorpresa invece, Alessia, supera brillantemente gli esami. I compagni di classe avevano solidarizzato con la malcapitata, raccogliendo ciascuno una piccola contribuzione in modo da pagare anche la sua quota, facendo malauguratamente saltare il progetto, ma salvando anche la vittima predestinata.
Durante l'anno sono diverse e fantasiose le 'contribuzioni' che aiutano l'allievo a ben preparare il salto alla classe superiore, soprattutto nella città: della benzina per la moto, del carbone per cucinare, delle 'ndele' per riparare il tetto della casa privata, delle 'unité' per il telefonino... Qualche volta nelle università i doni in natura si fanno più esigenti ed incredibili.
Una scuola non gratuita, spesso invasa dalla corruzione lascia ben poco sperare in future generazioni che siano in grado di raddrizzare il paese, eppure è sempre al livello dell'educazione che non si deve mai mollare la presa e la speranza. Aiutare la preparazione dei nuovi professori, sostenere gli allievi è un compito che sentiamo nostro. Tra le altre cose la missione diventa sala studio, biblioteca, libreria scolastica ed anche cartolibreria poiché in molti villaggi la possibilità di acquistare una penna, un grosso quaderno, un righello si riduce ad una volta ogni quindici giorni il giorno di mercato.
Siamo nella stagione delle piogge e i grossi camion hanno oramai sfiancato e consumato l'unica strada percorribile rimasta per Isiro, riempendola di scavi di enorme buche e di fango. I prezzi non possono che aumentare nella situazione di 'enclave' in cui ci troviamo a vivere. Ma il sole non manca, la foresta continua a crescere, accanto ad ogni grosso buco in mezzo alla strada c'è sempre lo spazio per creare un nuovo passaggio, la pazienza permette di prendere il giusto tempo necessario per smontare la rabbia e creare soluzioni a situazioni di 'empasse'. Niente è perduto, se poi si considera che quanto si perde è pur sempre di questa terra. Ed è comunque difficile togliere il sorriso ai bimbi.
Ciao e buon rientro anche a voi. p. Renzo.

mercoledì, luglio 01, 2009

Veleno


E’ una storia di foresta e uno spaccato di organizzazione sociale locale.
La maggioranza degli abitanti locali è composta dai neri di ceppo bantu, vivono nei villaggi, hanno accesso alla scuola, alle cariche amministrative… sono i così detti “normali”. Una minoranza di abitanti sono invece pigmei, che solo ultimamente stanno accedendo ai villaggi in quanto abitano prevalentemente la foresta della quale sono i veri autoctoni. Vivono di caccia, spesso con un complesso di inferiorità nei confronti dei bantu. Ebbene è oramai passato un mese da quando un pigmeo è stato portato d’urgenza ad un “poste de santé”, ambulatorio locale con infermiere chirurgo e lì è morto. Avvelenamento. Un po’ di sumu (veleno) inserito qualche ora precedente nella bevanda alcolica e non c’è stato più nulla da fare. Era in prigione per un diverbio con delle persone della sua famiglia. Le prigioni di qui hanno uno statuto speciale, non sono così rigide e non è impossibile avere la libera uscita per i più diversi motivi. Ma dove il pigmeo ha bevuto il veleno era presso una “distilleria” di bantu. Poco a poco emerge la verità della storia dopo le convocazioni dei responsabili e le inchieste.
Il bantu che ha introdotto il veleno nella bevanda del pigmeo ha voluto vendicarsi. Sua moglie è la sorella minore del pigmeo, ed essa, dopo qualche tempo di convivenza ha voluto rientrare alla famiglia. Accade spesso in molte famiglie che dei diverbi causino il rientro della moglie nella casa paterna. Se il marito aveva pagato tutta la dote la moglie sarà incoraggiata o costretta a rientrare presso il marito, se invece la dote non era stata completata sarà l’occasione propizia per i fratelli e gli zii della sposa di esigerne il completamento o almeno il versamento di una tranche supplementare (un maiale, dei polli, un bidone di venti litri di arak – bevanda alcolica) prima di concedere il rientro della donna. Ora il fratello della moglie pigmea aveva rifiutato di “rendere” la donna al legittimo marito bantu. Di qui l’omicidio premeditato e infine realizzato. Quello che è più stupefacente e drammatico è il seguito della storia ossia il verdetto di condanna dell’omicida. La famiglia di quest’ultimo e la famiglia del defunto pigmeo giungono ad un accordo di indennizzo: quattro maiali, quattro bidoni d’arak e una ragazza della famiglia dell’omicida sarà data in moglie ad un uomo della famiglia del pigmeo in modo che possa generare una nuova vita e compensare il vuoto lasciato dal defunto. … !!! …
Sono uno straniero, di un’altra cultura, con la missione di evangelizzare la cultura senza imporre la mia, ossia introdurvi il Vangelo senza introdurvi necessariamente i prodotti della cultura occidentale. Però qualche domanda me la concedo soprattutto dopo aver interrogato il responsabile della famiglia pigmea che afferma di essere soddisfatto del verdetto finale e della pena compensatoria. La prima e più grave: sarà la giovane ragazza che dovrà pagare con un matrimonio forzato o una gravidanza forzata la colpa di uno della famiglia? In molti dicono che non si troverà una ragazza bantu disposta ad andare con un pigmeo e quindi il verdetto (di un tribunale tradizionale bantu) è uno stratagemma per guadagnare tempo ed ingannare i pigmei. La seconda questione: soppesare una vita con una misura di maiali e di bidoni di bevanda mi sembra quanto meno volgare, ma il pensiero qui prevalente è che con la prigione del colpevole nessuno ci avrebbe guadagnato qualcosa. Ancora: se il morto fosse stato un bantu tutto si sarebbe svolto allo stesso modo? Certo il nostro modello di carcere ad ergastolo, lo vedo difficilmente applicabile in questo contesto di foresta. La pena deve essere punitiva, riparatoria, redentiva: come mettere in equilibrio tutti gli elementi?
Tanti interrogativi. Non voglio sospendere il giudizio ma neanche addormentarlo. Voglio capire meglio, verificare e se possibile portare qualche riflesso di luce.

Un pò di conti


Da quando sono rientrato in Congo non ho avuto grandi occasioni per scrivere e salutare. In questi mesi, estivi per l'Italia, a Babonde le attività si svolgono come di routine, innanzitutto i battesimi nei villaggi, la scuola per muratori, i lavori di costruzione secondo i progetti in corso (il magazzino sementi, la sala per la scuola computer, il laboratorio per gli occhiali, la casetta per gli ospiti, la scuola a Yambenda, le chiese nei villaggi...), la vita della comunità cristiana, i gruppi dei giovani.
Tra qualche settimana, quando il lavoro di preparazione dei campi e di semina sarà terminato potremo realizzare la formazione biblica per i nostri catechisti che superano il centinaio, in media tre in ognuno dei quaranta villaggi. E' un evento atteso, la mancanza di informazioni, di stimoli, di comunicazione di idee è una grande povertà per chi deve essere a sua volta formatore ed essere pronto ad animare, incoraggiare e consigliare. Ogni buona pianta per portare frutto ha bisogno di attenzioni. Grande dizionario e tesoro a cui attingere sarà ancora e sempre la Bibbia, inesauribile e sorprendente.
Di certo, nonostante le diverse faccende, la sensazione è quella dello scorrere del tempo uniforme ma non lento come l'acqua del grande fiume Congo, senza particolari scadenze, senza particolari accelerazioni eppure con forza e senza sosta. E' vero, non arrivano la primavera o l'estate, non arrivano le ferie o le escursioni, né manifestazioni né scioperi, concerti o campionati, promozioni o cambi di gestione, elezioni o scandali politici. Anche i bilanci, sia delle varie iniziative come dei rendiconti economici non sono pressantemente esigiti, il preventivo ed il consuntivo si accavallano. E' a livello personale che il bilancio sembra imporsi con una certa assiduità e tempestività. Qui i compleanni non si festeggiano e sulle carte d'identità la data di nascita porta spesso l'indicazione "nato verso l'anno ...." (poiché si ignora la data precisa) è comunque innegabile che il tempo passa, anzi, vola.
Cercando di fare un piccolo bilancio personale all'inizio di un nuovo periodo d'Africa, non sapendo bene da quale parte cominciare, ammirando le alte idealità dello Spirito e toccando i bassi compromessi della vita quotidiana vengono alla mente le parole di Gesù che invita ad ammassare ricchezze per il Regno dei cieli dove tignola e ruggine non consumano. Evito quindi il bilancio per non incorrere in affrettate ed inopportune soddisfazioni o depressive frustrazioni e mi rilancio per seminare e raccogliere quei frutti che rimangono: lasciarmi toccare il cuore e toccare i cuori.

lunedì, maggio 11, 2009

Mamme


E’ Camillo, il catechista di un villaggio a nove chilometri da Babonde che incontro davanti la nostra missione. E’ quasi sera e sono meravigliato di vederlo qui da noi, ma in poche parole mi spiega il perché. Fa l’assistenza alla figlia che è all’ospedale, ha subito d’urgenza il cesareo ed ora stenta a riprendersi, avrebbe bisogno di medicine, ma per acquistarle occorre rivolgersi ad una delle farmacie del villaggio. L’ospedale notoriamente ha pochi generi di medicine ed in quantità limitata, per cui non può “anticipare” e presentare poi la fattura prima dell’uscita una volta terminate le cure. Occorre dire che coloro che non pagano, anche se guariti non possono andarsene, ecco che i parenti si danno da fare per racimolare il necessario in modo da “liberare” l’ex malato e permettergli il ritorno a casa. Niente stipendi pubblici agli operatori sanitari da parte del governo, obbligati quindi ad esigere dai pazienti il prezzo intero della fattura. Nessuna banca per conservare un eventuale minimo deposito per le emergenze e pochissimi materassi nelle case, per nasconderci sotto qualcosa, in stanze senza porte, per cui nessun risparmio da parte delle famiglie costrette a vivere la malattia o l’incidente come perenne emergenza. Ad essa si fa fronte con la questua di parente in parente, di conoscente in conoscente fino a racimolare il necessario, soprattutto quando non si possiede un pollo, una capra, un maiale, vero capitale e preziosa merce di scambio in simili frangenti. La figlia si sta riprendendo ma il bambino è maschio o femmina? Era maschio ma è morto. La mamma aveva aspettato troppo a lungo in casa prima di comprendere che occorreva necessariamente ricorrere all’intervento dell’ospedale, senza perdere tempo passando per il locale Centro di Salute. L’inesperienza della prima volta, dei diciassette anni appena compiuti, delle spese da affrontare, di un bacino troppo stretto. Aveva lasciato la scuola nel tempo della gravidanza, ora lascia una vita. Non sarà facile per lei, a poco a poco si riprenderà.

lunedì, aprile 06, 2009

Formiche


Stiamo aspettando il Vescovo che dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Ci aveva preavvisato che sarebbe stato qui per pranzo assieme ad un “predicatore” per una giornata di spiritualità, domani, in preparazione alla prossima Pasqua. Ci sarà la Messa alle sei e trenta, poi la predicazione, l’adorazione e la preghiera di “guarigione e liberazione”. Il tutto potrebbe finire verso l’una o le tre del pomeriggio. Io sarò nel villaggio di Lomami, secondo il programma, per la daraja ya pili, la seconda tappa del catecumenato, qui con gli ospiti resterà p. Gianni. La mia è fortuna perché riesco a svignarmela o sfortuna perché mi perdo la preghiera di guarigione?
Oggi per Babonde è una giornata importante anche per un altro motivo poiché è arrivato giusto stamattina il nuovo medico che sarà il direttore dell’ospedale. Finalmente. Il lavoro di lobbing del capo di collettività, nonché deputato provinciale, ha portato frutti, nonostante i tentativi di sabotaggio da parte di coloro che non vedevano di buon occhio l’insediamento di un medico a Babonde. L’ingresso di nuove figure, il rimescolamento degli equilibri, la perdita di qualche potere all’interno della gerarchia sanitaria hanno fatto sì, fino ad oggi, che il bell’ospedale di Babonde rimanesse senza una guida competente ed adeguata: un bel guscio, solido, senza mandorla. Ma nel piccolo villaggio è così: il medico abiterà la casa a lui dedicata, e il precedente inquilino dovrà a malavoglia lasciarla libera; i pazienti che prima erano costretti a rivolgersi all’ospedale competente (a quaranta chilometri) ora si fermeranno qui, e con loro le relative parcelle per prestazioni, acquisto medicine e mercato locale; piccoli benefici, favori e premi dovranno essere rivisti. Tutto questo non manca di far parlare, discutere, sospettare e manovrare.
E’ pomeriggio oramai e sono sceso allo stagno di cui ne stiamo vuotando una parte. Voglio verificare il lavoro che ci sarà da fare e vedere se la pesca dei piccoli tilapia è stata abbondante. I libri dicono che dovrebbero raggiungere la dimensione di venticinque, trenta centimetri, ma la nostra acqua ed il nostro cibo fanno sì che si fermino alla triste misura massima di quindici. O forse sarà l’effetto dell’equatore troppo vicino. In ogni caso c’è una piccola folla che si sta disputando il pesche in vendita. Un fagottino di pesci per 500 franchi congolesi, il valore di circa mezzo euro. Non so se è a causa del prezzo basso o del fatto che ogni tanto a Babonde c’è il bisogno di mangiare qualche cosa di diverso dai fagioli e dal sombe per condire il solito riso e manioca. Comunque sia c’è bisogno di un servizio d’ordine, fatto in casa, per calmare gli animi di coloro che non sono riusciti ad averne. Tra qualche giorno vuoteremo un altro settore dello stagno, un po’ più ampio, vedremo come andrà a finire.
Il Vescovo ancora non arriva, così ne approfitto per scendere alla comunità delle suore per sistemare una lampada che non funziona, saranno loro a dover accogliere il medico con moglie e due figli, fino a che la “sua” casa non sarà un po’ sistemata, mentre alla falegnameria costruiscono il letto, tavola e sedie per la cucina, un tavolino e poltrone per il salone.
E’ allora, sulla strada, che due mamme mi informano della morte di una giovane donna, nostra vicina di casa, madre di due bambini. Suo papà stamattina, alla falegnameria, aveva fatto preparare due assi, in previsione, per costruirne la bara. Era appena ritorna dall’ospedale, quello a quaranta chilometri di distanza. Non hanno potuto fare nulla per lei e qui a casa è morta poche ore dopo il suo rientro. I bambini nel cortile piangono silenziosamente, una giovane donna fuori della porta di casa, seduta su di uno sgabello, legge una pagina della Bibbia. Cerco di entrare per recitare insieme una preghiera, ma stanno lavando e preparando il corpo. Ripasserò.
Dalla chiesa si sentono i canti rumorosi e festosi dei carismatici nel momento di animazione.
Il Vescovo, il predicatore, il medico, la gente, i pesci, la mamma e i suoi bimbi oramai orfani. Storie, vite che si incrociano o solo si sfiorano, quante “piccole formiche” che si agitano nel vasto universo pensando alle loro “grandi cose”. Che cosa è importante nel nostro agitarci? Noi sappiamo, o meglio, noi speriamo che Qualcuno farà la sintesi per noi.

lunedì, marzo 09, 2009

A Babonde!





Da venerdì 6 marzo siamo a Babonde, un viaggio un po’ articolato, Bologna, Bruxelles, Kinshasa. Qualche giorno per effettuare la trasposizione del visto sul nuovo passaporto e partenza per Kisangani, un giorno per fare qualche spesa e ripartenza il martedì 3 marzo. Io sono sulla nuova Land Rover ed un altro confratello con un nuovo camion. Le nostre due comunità sono vicine, Babonde ed Ibambi, e tutte e due approfittano di un finanziamento che arriva da una generosa parrocchia del Lussemburgo, sono molti gli amici delle missioni. La strada è quella dell’Ituri, quella che porta ad Est. La nostra vettura era a Kisangani da giugno scorso, ma non riuscivamo a portarla a casa. Nessun aereo con trasporto merci sufficientemente grande sulla tratta Kisangani-Isiro. Via terra settanta kilometri impraticabili tra Bafasende e Niania. Qualche mese di attesa (nove per la precisione, la pazienza in Africa spesso la fa da padrona) ed un grande grazie ai cinesi ed ai loro contratti che prevedono la costruzione di infrastrutture in cambio di sfruttamento delle risorse minerarie, ci permettono di essere a Niania lo stesso martedì pomeriggio. A mezza mattinata abbiamo avuto anche il tempo di fare una sosta a Batama al 162mo chilometro. Il villaggio di Batama, vecchia conoscenza quando, ancora seminarista a Bologna, con il gruppo scouts della Ponticella facemmo lì un campo estivo nell’intento di rimettere in piedi una missione abbandonata dal tempo della ribellione dei Simba. Passiamo il grande fiume Lindi e sostiamo a Bafasende per mangiare qualcuno dei suoi pesci e salutare l’abbè Raimond. Siamo a Niania alle 14.00; alla parrocchia raccogliamo due aspiranti catechisti che provengono da Mambasa e sono diretti al centro pastorale di Wamba per un primo corso di formazione lungo un intero mese, che li prepara al servizio pastorale che dovranno svolgere nel loro villaggio. E’ il primo pomeriggio e si tratta di affrontare la strada difficile di Bingò, altri settanta chilometri nella foresta e nel fango, impossibili nella stagione delle piogge, ma è adesso la stagione secca, è adesso il momento di provare a passare. Quattro chilometri ed il camion che ci precede, alla terza buca, letteralmente si rovescia sul fianco.
Fosse stato un uomo si sarebbe detto “gambe all’aria”. Grazie a Dio nessuno nella cabina si è ferito, solamente una botta ad un braccio del confratello che stava dalla parte dell’impatto e per fortuna che non aveva accettato di trasportare nessuno sul cassone come invece abitualmente si fa. Lavoriamo fino al buio per scaricare carburante e pacchi e tentare di risollevare il mezzo senza riuscirci. Rientriamo a Niania per passare la notte e per cercare un “tira fuori” ossia cricco e cavo d’acciaio che ci permetterà il mattino dopo di rimettere in piedi camion. E’ mercoledì e alle 9 e mezza abbiamo già ricaricato, pronti a ripartire. Nel frattempo osservo i tantissimi Kumba Kumba che ci oltrepassano, i trasportatori di merci in bicicletta carichi di tutto, olio in sacchi di plastica, maili, capre, farina e riso, bidoni e ciabatte. Sono stupefatto ancora una volta dai trasportatori di merci a piedi, uno di questi è riuscito a caricarsi sulla schiena ben sei casse di birra, ciascuna di dodici bottiglie. Riprendiamo il viaggio, ma sono sufficienti trenta minuti di strada ed una nuova profonda buca per arrestare di nuovo il camion, stavolta impantanato. Ora il lavoro è questione di pala, secchi e tronchi di legno, ma sarà un autista di passaggio a soccorrere il nostro chauffer, decisamente poco esperto di quella strada. A questo punto ci separiamo, con la Land Rover continuiamo, il camion ritorna indietro, sceglierà un’altra strada in un tempo più favorevole. Trazione integrale, marce ridotte, il nostro mezzo risponde bene e supera gli ostacoli, prima del buio siamo al chilometro 51 da Wamba. Passiamo la notte a Bafwabangwe, un grosso villaggio in prossimità di una miniera d’oro, accolti dalla comunità cristiana e dalla moglie del catechista che ci prepara riso e pesce salato. Un secchio d’acqua a ciascuno dei viaggiatori per una meritata doccia. La notte nelle capanne che ogni villaggio ha, accanto alla chiesa, per accogliere gli ospiti. Mi chiedono di celebrare la messa alle sei e mezza del giorno dopo, a me dispiace deludere la loro attesa ma alle sei in punto siamo di nuovo in viaggio, ed abbastanza in fretta usciamo dal fango di Bingò, per strada superiamo una camionetta stracarica di merci, in viaggio da quattro giorni sul nostro stesso percorso, ed incontriamo un camion in direzione opposta il cui autista sta studiando il modo di arrangiare la strada per superare un passaggio al momento impossibile per lui: non conterà le settimane che gli ci vorranno. Incontriamo anche molti resti di fuochi notturni, segno del pernottamento di tanti che hanno dovuto lottare per aprirsi il passaggio: ringraziamo tutti quelli che hanno lavorato prima del nostro viaggio e noi gratuitamente approfittiamo. Sostiamo a Bayenga ed infine a Wamba per un doveroso saluto al Vescovo dopo i tre mesi di vacanza. Nel pomeriggio è una buca profonda scavata dall’erosione dell’acqua a bloccarci il cammino. Un’ora di sforzi e qualche vescica alle mani che non sono abituate a lavorare di pala e machette, non riescono però a liberarci. Sarà l’aiuto di una corda e di una camionetta di passaggio a rimetterci finalmente sul buon percorso. Un’altra notte in brousse, stavolta nel villaggio di Mandele, tra gli Yogoo, tribù di lingua lingala. Per la cena ci aiuta stavolta un po’ di pane della carne in scatola. I ragazzi danzano nella notte di luna, per far festa agli ospiti e alcuni uomini si raccolgono sotto la barza. Ora è venerdì, ed è solare questo giorno animato fin dalle quattro del mattino da voci e da luci di torce, sono la persone del villaggio alla ricerca delle termiti nella stagione della migrazione, cibo ricercato. Una settimana intera senza pioggia ha senz’altro benedetto il viaggio, prima di pranzo siamo già a Babonde. E’ il primo venerdì del mese e gli oltre cento catechisti sono radunati per il programma del mese, dico loro: “nimekula sombe ya mama yangu”, “ho mangiato il cibo della mia mamma”, per giustificare le mie nuove forme decisamente più rotonde. La domanda di tutti è “i parenti stanno bene?”, “il viaggio è stato buono?”. Altri sono contenti per la macchina nuova, sanno che è anche per loro. Altri ancora sono finalmente convinti che la mia era veramente una ‘vacanza’ e non una partenza definitiva, come spesso talvolta è accaduto per qualche altro missionario che non ha avuto possibilità di rivenire almeno per salutare. Poi è il turno o l’assalto dei bambini che qualche insegnate ha sguinzagliato sulle mie tracce. Stringere la mano a tutti è d’obbligo, ma mi sottometto volentieri a questo dovere, la comunione dello spirito non è possibile senza una comunione dei corpi, per ascoltare occorre esserci, per parlare occorre esserci, per lavorare insieme occorre esserci.Compagni di viaggio.

mercoledì, febbraio 25, 2009

Panorami


E’ rimasto un po’ muto il Blog in questi ultimi mesi. Aspettava un’ispirazione africana. Sono in aereo, oltrepassiamo il deserto africano, è già un’ora che ci voliamo sopra e non lo ricordavo così vasto. Negli ultimi tempi mi ero abituato invece alla grandezza della foresta equatoriale, mi ci immergerò di nuovo tra poco. Contrasto di luoghi, era appena stamattina quando ammiravo dall’alto le cime innevate delle alpi, ghiacciai compresi, qualche ora prima era notte nella pianura padana.
La rapidità di un aereo permette di passare velocemente da un ambiente all’altro. Con l’occhio del credente posso lodare Dio per le bellezze della creazione; con l’occhio del turista posso rimanere sbalordito dalla maestosità dei paesaggi; pensando all’uomo posso immaginare la difficoltà di vita in ognuna di queste “nature”. Come in aereo così nella vita è facile sorvolare, più difficile immergersi. E’ facile passare, più difficile il rimanere. Come per i paesaggi così anche per le persone… è più facile sfiorarle che incontrarle, è più facile conoscerne i volti ed i nomi che non i cuori.
Riparto per il mio secondo periodo africano, i prossimi tre anni, a Dio piacendo. La sfida di oggi è questa dopo una prima introduzione al mondo della missione. Poiché non è facile andare al di là dei ruoli, al di là delle funzioni, toccare l’uomo e lasciarsi toccare. Anche in missione si può amare di più il ruolo che le persone alle quali si è inviati, si può amare di più il progetto che avere a cuore le piaghe di coloro che quel progetto vuole avvicinare e provare a sanare, si possono amare i numeri più che la verità delle esperienze. Incontrare i cuori chiederà di più, progettare e lavorare insieme chiederà di più, credere insieme chiederà di più. Nell’esperienza umana il viaggio è un simbolo e una parabola importante, in quella cristiana si chiama pellegrinaggio. Non è questione di chilometri, né di avventure da raccontare. Non è questione di passaggio da un’esperienza all’altra e neppure è il crescendo di intensità d’emozioni. Non è questione di una meta lontana quanto piuttosto di trovare il centro. E’ l’umiltà di infilarsi ogni giorno le scarpe e mettersi in moto, per scoprire il cuore delle cose e l’animo delle persone. I veri “pellegrini” apprezzano il viaggio più che la meta, godono dei compagni di strada più delle albe e dei tramonti- E riempiendosi gli occhi di innumerevoli immagini vedono se stessi.

giovedì, gennaio 01, 2009

Il Natale e la donna africana


Il primo giorno dell’anno è dedicato alla Madre e dall’italia mi faccio eco di un bellissimo testo – che solo una donna avrebe potuto scrivere così bene. Da “Rabbunì” giornalino delle suore Francescane Missionarie.

Natale è ormai alle porte; le luci sono state accese con parecchio anticipo e il brillìo contagia piccoli e grandi; tutti siamo attratti da quel misto di letizia e di nostalgia che ondeggia nell’anima. Osservo la gente che affolla i negozi per l’acquisto dei doni e mi chiedo se fra tante persone qualcuna saprà ritagliare un tempuscolo per sé per ascoltare nel suo intimo quel sentimento indefinibile e intenso chiamato “attesa” e per chiedersi: “Ma io, aspetto? Cosa aspetto? Chi aspetto?”. La domanda s’impone perché l’uomo, suo malgrado, ha una sconfinata nostalgia di Dio. Sembra che oggi questo vada detto… sottovoce e invece è la notizia più sconvolgente e bella: Gesù, l’Emmanuele è Dio-con-noi. Mentre osservo con tristezza coloro che rischiano di festeggiare il compleanno… senza il Festeggiato, riaffiora alla mia mente una scena a cui ho assistito e che si è incisa in me.
Ero nel dispensario di Wasserà in Etiopia e quel giorno era dedicato ai bimbi denutriti; l’infermiera, Suor Lucia Zerbo, era pronta ad accogliere il centinaio di mamme che sarebbero andate per il controllo dei neonati. Tra le prime, giunte di buon ora, c’era una bimba che portava il fratellino sulla schiena. Entra dunque la bimba e si siede, composta, sulla panca. E’ sudata, ha attraversato parecchi campi e boschi di eucaliptus; il bimbo ha fame e cerca il seno, ma quasi percependo che quella piccola madre non ha latte per nutrirlo, le posa la manina sul petto come per accarezzarle il cuore. Le donne che attendono sono vivaci: parlano, ridono, si mostrano i loro figli; hanno indossato le vesti colorate, persino un po’ eleganti, perché Suor Lucia desidera che siano in ordine. Non fanno caso alla bimba: è frequente lì vedere sorelle appena maggiori occuparsi dei fratellini.
Arriva il suo turno e con grande assennatezza spiega che viene da una frazione lontana; la mamma ammalata non può camminare e, avendo udito che ci sarebbe stata la distribuzione del latte, ha portato il fratellino. Con delicatezza Suor Lucia lo visita: non ha la scabbia nè altre piaghe cutanee, non ha pulci penetranti; lo pesa; il bimbo è sano, pulito e ben nutrito. La piccola riceve i complimenti per la cura che ha di lui e, in dono, per lei, due confezioni di marmellata di arachidi e di biscotti vitaminizzati. Guarda incantata il suo piccolo tesoro. Suor Lucia le chiede il suo nome: “Zion”. Zion, per noi Sion, è il nome poetico di Gerusalemme, luogo santo della speranza profetica, luogo della promessa del Messia che verrà, terra della Vergine Maria che darà al mondo l’Emmanuele. Mi risuona nel cuore il grido del profeta:
"Risvegliati, rivestiti della tua forza, Sion! Mettiti le tue più splendide vesti, Gerusalemme, città santa! Scuotiti di dosso la polvere, alzati." (Is 51,17)
I miei occhi continuano a contemplare la Betlemme di Wasserà. Prima di uscire, Zion pulisce il nasino del bimbo con l’angolo dell’ampio velo, poi, con quel gesto veloce e preciso che si perpetua per le mamme africane dalla notte del tempo, si carica il fratellino sulla schiena; dà due piccole scosse come per assestare il peso e si lega il velo attorno ai fianchi annodandone ben stretti i lembi sul petto. Non c’è al mondo culla più anatomica e confortevole di quella. Infatti il piccino s’addormenta e reclina la testolina sulla spalla della sorella. E’ un Natale vivente.
La sua figura si perde tra la folla che, a quell’ora, si affretta verso il mercato vicino. C’è chi porta fascine, chi ceste di cavoli; chi anfore di creta seccate al sole, chi focacce di fibre di falso banano. Zion porta il bambino, o meglio, “indossa” il fratellino che fa corpo con lei. Sono un’unica persona. Da quando è nato non si è mai separata da lui, neppure quando bada le due pecore, unica risorsa della famiglia; neppure quando gioca a sassolini con altri bimbi, né quando sta sotto l’albero grande in mezzo alla piana per le lezioni del catechista. Lo cede alla mamma solo per il tempo della poppata e poi se lo riprende in groppa, "incollato" su quella rupe da cui potrà un giorno spiccare il volo per il viaggio della vita. Così sono cullati i bimbi africani: il corpo della loro madre è la terra reale dei loro primi tre anni. Ben al sicuro sulla loro schiena, portati nella sua stessa direzione, si trovano alla stessa altezza visiva, sono sempre "in mezzo" alla vita del villaggio. Non devono produrre calore, hanno quello della mamma e sono cullati dai ritmi atavici della quotidianità che li porta lentamente dentro il mondo per gustare le fatiche, i canti e gli odori della vita, da subito. Zion, pur così piccola, rivela già la vocazione privilegiata della donna: portare il peso della vita e dell’amore: nove mesi all’interno del proprio corpo e anni e anni, fuori da esso. Zion ha dovuto vincere in fretta il naturale egoismo dell’infanzia che desidera possedere la mamma solo per sé e avere l’esclusiva delle sue carezze, per sviluppare la generosità innata dell’indole femminile. Sempre la madre fa un passo indietro perché il figlio sia il primo, sempre perde un po’ della sua vita perché il figlio cresca. Essere madre: carico pesante di vulnerabilità e di gloria che rende la donna tanto rassomigliante a Dio Amore. Essere madre: un Natale sempre rinnovato. “Tu sei così piccola, eppure tu sei già icona della donna africana, anzi, della Donna Unica tra le donne, piccola Zion, grazie, perché tu illumini per noi il senso vero del Natale”. La santa Madre Maria, ha dato alla luce, nella nostra condizione umana, il Figlio dell’Eterno. L’Amore ha preso il nostro corpo, si è fatto visibile ma in così tanta umiltà e povertà da passarci accanto inosservato, senza che i nostri occhi riescano a riconoscerLo. Occorre la luce della fede e il ritorno silenzioso al desiderio del cuore: allora niente ci sembrerà tanto bello e urgente quanto fare spazio al Signore che tutto riempie di Sé e ci schiuderemo ad una sovrabbondanza di pace e di benevolenza per tutti; forse allora il Natale di Wasserà renderà più vero il nostro Natale.