mercoledì, luglio 01, 2009

Veleno


E’ una storia di foresta e uno spaccato di organizzazione sociale locale.
La maggioranza degli abitanti locali è composta dai neri di ceppo bantu, vivono nei villaggi, hanno accesso alla scuola, alle cariche amministrative… sono i così detti “normali”. Una minoranza di abitanti sono invece pigmei, che solo ultimamente stanno accedendo ai villaggi in quanto abitano prevalentemente la foresta della quale sono i veri autoctoni. Vivono di caccia, spesso con un complesso di inferiorità nei confronti dei bantu. Ebbene è oramai passato un mese da quando un pigmeo è stato portato d’urgenza ad un “poste de santé”, ambulatorio locale con infermiere chirurgo e lì è morto. Avvelenamento. Un po’ di sumu (veleno) inserito qualche ora precedente nella bevanda alcolica e non c’è stato più nulla da fare. Era in prigione per un diverbio con delle persone della sua famiglia. Le prigioni di qui hanno uno statuto speciale, non sono così rigide e non è impossibile avere la libera uscita per i più diversi motivi. Ma dove il pigmeo ha bevuto il veleno era presso una “distilleria” di bantu. Poco a poco emerge la verità della storia dopo le convocazioni dei responsabili e le inchieste.
Il bantu che ha introdotto il veleno nella bevanda del pigmeo ha voluto vendicarsi. Sua moglie è la sorella minore del pigmeo, ed essa, dopo qualche tempo di convivenza ha voluto rientrare alla famiglia. Accade spesso in molte famiglie che dei diverbi causino il rientro della moglie nella casa paterna. Se il marito aveva pagato tutta la dote la moglie sarà incoraggiata o costretta a rientrare presso il marito, se invece la dote non era stata completata sarà l’occasione propizia per i fratelli e gli zii della sposa di esigerne il completamento o almeno il versamento di una tranche supplementare (un maiale, dei polli, un bidone di venti litri di arak – bevanda alcolica) prima di concedere il rientro della donna. Ora il fratello della moglie pigmea aveva rifiutato di “rendere” la donna al legittimo marito bantu. Di qui l’omicidio premeditato e infine realizzato. Quello che è più stupefacente e drammatico è il seguito della storia ossia il verdetto di condanna dell’omicida. La famiglia di quest’ultimo e la famiglia del defunto pigmeo giungono ad un accordo di indennizzo: quattro maiali, quattro bidoni d’arak e una ragazza della famiglia dell’omicida sarà data in moglie ad un uomo della famiglia del pigmeo in modo che possa generare una nuova vita e compensare il vuoto lasciato dal defunto. … !!! …
Sono uno straniero, di un’altra cultura, con la missione di evangelizzare la cultura senza imporre la mia, ossia introdurvi il Vangelo senza introdurvi necessariamente i prodotti della cultura occidentale. Però qualche domanda me la concedo soprattutto dopo aver interrogato il responsabile della famiglia pigmea che afferma di essere soddisfatto del verdetto finale e della pena compensatoria. La prima e più grave: sarà la giovane ragazza che dovrà pagare con un matrimonio forzato o una gravidanza forzata la colpa di uno della famiglia? In molti dicono che non si troverà una ragazza bantu disposta ad andare con un pigmeo e quindi il verdetto (di un tribunale tradizionale bantu) è uno stratagemma per guadagnare tempo ed ingannare i pigmei. La seconda questione: soppesare una vita con una misura di maiali e di bidoni di bevanda mi sembra quanto meno volgare, ma il pensiero qui prevalente è che con la prigione del colpevole nessuno ci avrebbe guadagnato qualcosa. Ancora: se il morto fosse stato un bantu tutto si sarebbe svolto allo stesso modo? Certo il nostro modello di carcere ad ergastolo, lo vedo difficilmente applicabile in questo contesto di foresta. La pena deve essere punitiva, riparatoria, redentiva: come mettere in equilibrio tutti gli elementi?
Tanti interrogativi. Non voglio sospendere il giudizio ma neanche addormentarlo. Voglio capire meglio, verificare e se possibile portare qualche riflesso di luce.