mercoledì, aprile 11, 2007

Buona Pasqua a Bengwa

Bengwa
E’ notte e non sono molte le luci a risplendere stasera nella foresta di Babonde. Probabilmente è per questo che si sono date appuntamento qui da noi centinaia e centinaia di termiti alate in periodo di mutazione. La zanzariera alla porta rende il suo onesto servizio. La pioggia ha scoraggiato gli abitanti del villaggio e soprattutto i pigmei che in questa stagione accendono numerosi piccoli fuochi attorno ai termitieri per catturarle e farne cibo prelibato, da prendere in piccole dosi per non essere troppo turbati a livello di ventre.
Stiamo progressivamente entrando nella stagione delle “piccole” piogge. Abbiamo approfittato dei mesi di gennaio e febbraio per visitare i villaggi più difficili da raggiungere. E siamo giunti a Bengwa, la beniamina fra tutti i villaggi. Benjamin è il termine normalmente utilizzato per dire l’ultimo nato in famiglia, prendendo spunto dall’ultimo figlio tra i dodici del biblico Giacobbe, appunto Beniamino.
Bengwa la si raggiunge solo a piedi, non una strada per l’auto, non un percorso per la moto, ma neppure un bicicletta può arrivarci se non trasportandola a spalla, e allora “il gioco non vale la candela”. Ci sono cinque piccoli torrenti da superare salendo e scendendo le differenti colline per circa dodici chilometri. Talvolta il ruscello stesso è il sentiero, ci si cammina dentro senza grandi difficoltà grazie alla stagione favorevole, ed un paio di stivali è sufficiente. Ci fa da guida il giovane catechista assieme ad altre persone, qualcuno aiuta a portare le piccole valigie con il necessario per la Messa. Due ragazzine portano una sedia ciascuna, prese dal villaggio madre, Bevebendame. Può darsi che in tutta Bengwa non esista una sedia decente? In ogni caso mi è sfuggito di chiarire il piccolo dubbio. Con noi è anche un anziano pigmeo, bene integrato con la popolazione bantu. Ci chiediamo se ce la farà ad arrivare. Interrogativo superfluo, per lui nessun problema. Lungo la pista non ci sono imprevisti. Il pericolo più grosso che incontriamo sono le colonne di formiche rosse, vietato calpestarle, non perché mossi da spirito francescano, ma perché pizzicano terribilmente se riescono ad oltrepassare la soglia dei vestiti. Succede così che a diversi minuti di distanza da quando le si sono superate, quando oramai non le si ricorda nemmeno, una volta risalite le gambe, iniziano a pizzicare, tutte insieme come per accordo e… senza decenza.Sarà la prima volta di una messa a Bengwa, la prima volta per il battesimo dei catecumeni, l’inaugurazione della chiesetta, sarà siku kuu, giorno grande di festa, tra giornate troppo spesso uguali a se stesse nel mezzo della foresta e del lavoro dei campi. Un catechista responsabile, una chiesetta, la scansione delle feste e dei momenti della vita cristiana; un prete che di rado arriverà; ben presto una piccola scuola almeno per le prime classi elementari. Letta così la realtà, sembra dire semplicemente di un’organizzazione diversa della vita che si impianta. Qualcosa che dal di fuori arriva, mette da parte il vecchio e installa il nuovo. Ma non è così. Leggendo più in profondità si intuisce e ci si sente dire apertamente che quello che stiamo compiendo è un passo fatto insieme, cercato insieme per essere più… più uomini, più se stessi mettendo alla luce potenzialità nascoste… più consapevoli di essere amati da Dio, quindi di valere di più, più amabili… e più capaci di amare… più. Il passo che compiamo insieme, con una Eucaristia a Bengwa è ancora molto e molto di più, ma il mistero non si può descrivere, solamente intuire. Tuttavia è già una nuova nascita. Buona Pasqua a Bengwa.

Sulla donna (1) … perché è lunga la storia...

Anche in Congo la festa dell’otto marzo è bene installata, giornata non lavorativa. A Babonde la chefferia organizza una giornata speciale, con discorsi, canti danze e defilè. La chefferia è il luogo amministrativo civile impiantato sulla struttura tradizionale di governo (anche se questa parola è un po’ grossa). La chefferia sta sopra il capo di località o villaggio – Babonde è una località – e sta sopra il capo di raggruppamento di un insieme di località. La nostra chefferia è la chefferia di Likasi della tribù dei Balika Katoriko. Sono i capi della famiglia regnante che eleggono il grande chef, riconosciuto dal governo centrale congolese e punto di riferimento locale per numerosissime questioni. Ovviamente fino ad oggi non c’è traccia di chef che siano state donne, ma non è questo il punto. Nel nuovo parlamento nazionale, recentemente installato vi è una piccola presenza di donne elette, segno che nelle città il clima culturale è cambiato, ma nei villaggi sarà raro trovare anche solo una direttrice di scuola, una infermiere titolare, una catechista.
Il disagio maggiore per me è quando mangiamo nelle piccole capanne di qualcuno del posto, a tavola sono rigorosamente i soli uomini. Le donne preparano il cibo, offrono l’acqua per lavarsi le mani, riempiono i bicchieri e… attendono in piedi, pronte a reagire se manca qualcosa, ma non siedono insieme. Il disagio comunque è solo mio per diversi motivi, poiché tavolo e sedie sono state recuperate per l’occasione dell’ospite, perché normalmente per il pasto familiare un solo grande recipiente serve l’acqua per tutta la famiglia, perché non ci sono piatti ma grandi foglie che hanno il pregio di non dover essere in seguito lavate e le mani costituiscono le primordiali postate. Perché infine, a tavola si mangia e non si parla e finito il proprio turno si lascia il posto agli altri numerosi che vengono dopo. Ecco che è del tutto eccezionale il “sedersi a tavola”. Altre volte sono stato tentato di definire la donna “mezzo di trasporto”. Lungo le rosse strade non vedremo mai una donna camminare senza un qualche peso addosso, legato dietro le spalle o portato sulla testa o ancora a patire dalla fronte con una corda, sospeso dietro la schiena… o tutto insieme. E’ infatti la donna con i suoi bambini che procura la legna per la cucina di ogni giorno, l’acqua da bere, il cibo per il mangiare. Non ho fatto l’esperienza, ma taniche di 20 litri d’acqua trasportati per qualche chilometro non sono uno scherzo, come un cesto di patate di manioca, talvolta nel mentre che si allatta un bambino al seno… qui davvero non posso fare l’esperienza… oppure una bracciata di legna non ancora seccata. Il clima “malarico” non permette la sopravvivenza di asini e forse la tentazione di assaggiare una carne “esotica” sarebbe troppo forte. La morfologia collinosa del terreno e l’inesistenza di carretti mi ha portato spesso ad associare le donne a robusti mezzi di trasporto. Per “par condicio” dovrò aggiungere che è dei maschi il lavoro del kumba kumba, il trasportatore di mercanzia in bicicletta, con viaggi di settimane, centinaia di chilometri e mediamente un centinaio di chili aggrappati sul portapacchi modificato.