domenica, luglio 20, 2008

Prigione

Prigione
Niente fotografie, il sito è sensibile. Come all’epoca del dittatore Mobutu dove tutto era “sito sensibile per la sicurezza nazionale”, alla prigione e soprattutto in città, è meglio non fare fotografie per non incorrere nelle classiche “tracasserie” di soldati, polizia o gente qualunque in cerca di espedienti per raccogliere qualche dollaro dalle situazioni le più disparate. Quindi: niente fotografie!
Oggi domenica, con p. Vilson siamo alla prigione centrale di Kisangani per la messa. Edificio fatiscente in mattoni rossi con due torrioni che danno l’idea di una costruzione crociata medioevale. Un muraglione di cinta alto una dozzina di metri. All’interno, addossato al muraglione, lungo ilati destro e sinistro, le celle comuni per i prigionieri, in tutto trecento in questo periodo. La sola metà delle celle è effettivamente utilizzata, l’altra metà è senza tetto: le lamiere sono state tolte e vendute dall’allora direttore del carcere per far fronte alle spese ospedaliere della sua mortale malattia. All’entrata ci attendono due catechisti che seguono alcune situazioni particolari dei detenuti e animano le celebrazioni. Due volte la settimana le comunità dehoniane di Kisangani portano il pasto per tutti i detenuti. In mancanza di questo sono i parenti degli stessi a dover provvedere. All’entrata colpisce il numero di persone che grida a voce alta… non posso decifrarne il significato ma posso interpretare siano grida di liberazione, di sfogo della rabbia e dell’impotenza. Frequentissimo il caso di detenuti che da anni attendono un processo. Se non c’è il l’olio del denaro il motore della giustizia non gira, neanche a basso regime. L’etàmedia è sui trenta/trentacinque anni. Colpiscono i voltigiovani, qualcuno con lo sguardo assente, qualche altro evidentemente denutrito, qualche altro malato. La celebrazione raggruppa una sessantina di prigionieri. I canti in lingala, il rito in kiswahili, la partecipazione sincera. Il rito cattolico se seguito in maniera stretta non prevede un grande coinvolgimento esteriore dell’assemblea alle preghiere, ma forse ce ne sarebbe davvero bisogno per lasciare spazio all’animo di questi uomini di esprimersi, rischiando magari qualche parola fuori posto, non sarebbe così grave.
Siamo sotto la tettoia centrale, mentre all’intorno la vita del carcere continua, qualcuno spacca della legna, qualche altro cucina, un giovane prepara una lettera da spedire all’esterno…
Al termine mi avvicinano quattro uomini di una cinquantina d’anni, vengono da Isiro, impiegati dell’amministrazione provinciale, sono stati accusati dal loro capo di Kisangani di aver fatto sparire dei soldi pubblici e quindi condotti in prigione da oramai quattro mesi. Anche per loro nessuna notizia ulteriore di processo o di giudizio. Quando vengono a conoscenza che sarò di ritorno a Isiro tra qualche giorno, con parole piene di speranza mi chiedono di salutare le loro famiglie, senza però fornirmi indirizzo o riferimenti. Emozione? Ingenuità? Oppure già soddisfatti di aver potuto parlare con qualcuno di “casa”, per modo di dire, poiché d’Isiro conosco veramente poco. In ogni caso nei loro volti la gioia.
Si dice che il pesce comincia a marcire a partire dalla testa. Loro si dichiarano ovviamente innocenti e non è il caso di entrare nel merito della vicenda. Resta evidente che nella rete della fatiscente giustizia congolese sono i piccoli pesci che vi rimangono intrappolati. Tra le molte evangelizzazioni da fare, anche l’evangelizzazione della giustizia sarebbe urgente. Ad Isiro ho scoperto “Avion sans frontiers”, ma anche “Giustizia senza frontiere” troverebbe un suo spazio di lavoro.