martedì, novembre 25, 2008

Foresta e Brulichio


Sono a Kinshasa, la capitale della RDC (Rrepubblica Democratica del Congo), lungo il viaggio di rientro in Italia per il periodo di congedo di tre mesi dopo i quasi tre anni di Congo. Un viaggio dettato anche dalla necessità di rinnovare il passaporto in scadenza. Un’ora di volo per superare i quasi 2000 km di foresta che stanno tra Kisangani e Kinshasa. Il cielo è terso sotto di noi, si possono distinguere i corsi d’acqua e qualche rara, timida strada. Ai fianchi della strada le solite poche capanne. Per il resto è foresta e foresta, la seconda più grande al mondo dopo quella amazzonica del Brasile.
In prossimità di Kinshasa il paesaggio varia un po’ e la foresta si mischia con una piana senza alberi ai bordi del fiume Congo, il quale dopo aver attraversato tutto il paese ed aver ricevuto affluenti di ogni sorta, è diventato enorme. La sua portata d’acqua è la più grande al mondo e dalle sue acque si potrebbe ricavare corrente elettrica per tutta l’Africa ed esportarne fino in Europa… progetti in corso, in attesa di finanzimenti e di controvalore locale, ossia contratti di sfruttamento di minerali. Sbarchiamo all’aereoporto internazionale di N’Djili. Il terreno alluvionale sul quale è costruita la pista fa si che, tutto attorno, la sabbia domini il paesaggio. Recupero bagagli e viaggio fino alla nostra comunità di Lemba, distante una decina di chilometri su di un lungo rettilineo asfaltato. E’ qui che la foresta cambia radicalmente volto per lasciare il posto al Brulichio, un brulichio incredibile di persone – alcune dei 9 milioni di abitanti della capitale, un quinto degli abitanti di tutto il paese. Brulichio di vetture e degli intramontabili pulmini Volkswagen a nove posti, scassati e stracarichi di persone nei colori giallo-blu dei mezzi di trasporto pubblici. Brulichio di persone in attività nelle decine di piccoli mercati ai bordi della strada per vendere ed acquistare il necessario per il pasto unico serale. Ed in prossimità della nostra comunità, brulichio ancora di persone tra stradine strette, riempite di buche, in case, dimensioni di quattro per quattro, costruite di blocchi di cemento e lamiere. Le definizioni di baraccopoli o bidonville forse non dovrebbero prevedere delle case in blocchi di cemento e lamiere, ma l’impressione che questi quartieri danno non è molto lontana. Assenza di piano regolatore; quelli che una volta erano cortili sono invasi ora da nuove costruzioni; scolo delle acque a cielo aperto; sacchetti di plastica usati e rifiuti da tutte le parti… Si, devo dire di aver subito un certo shok nel passaggio dalla foresta di Babonde al brulichio di Kinshasa, dagli spazi aperti dei villaggi alla “sardinizzazione” delle troppe persone in spazi sotto il limite della sufficienza. Shok nel passaggio dai paesaggi intatti di questi ultimi tre anni, al cielo grigio di fumi di scarico e di polvere. Shok del brulichio di persone che getta gli individui nell’anonimato, ognuno per la sua strada, dove la povertà diventa miseria perché non c’è persona con cui condividerla.
Imbottigliamenti, intasamenti, ore di strada per raggiungere il lavoro, la scuola, il mercato o un ufficio… è come entrare in un’altra foresta, quella urbana. Al “fitto” degli alberi si sostituiscono tutte altre serie di “fitti” nei quali occorre orientarsi, districarsi e alla fine sopravvivere.
E’ anche Brulichio di chiese: chiese del Risveglio, Evangeliche, Pentecostali, Carismatiche, della Salvezza, del nuovo Apostolo o del nuovo Profeta, del Cristo in Terra, dell’Ultimo Giorno, della Guarigione o del Perdono… in ogni quartiere, in ogni ancolo una chiesa, un gruppo di preghiera…
Sono arrivato venerdì sera ed il sabato mattina, alle sei, messa nella chiesetta della comunità, la parrocchia cattolica è vicina, ne vedo il tetto e la croce a circa duecento metri, eppure sono qui presenti più di una cinquantina di persone, un altoparlante diffonde all’esterno la voce per quelli che non possono entrare o che preferiscono gustare il fresco del mattino. Non c’è fretta, si ascolta la Parola, si canta, si prega, si riceve la comunione…Nella foresta urbana di Kinshasa, in mezzo al brulichio di tante realtà, le persone cercano una luce, ne hanno bisogno, cercano di essere persone, sanno di avere una dignità, sanno che il Cristo e il suo amore si propone a loro.

Scuola d’Agronomia


E’ nel villaggio di Yambenda che stiamo piantando un seme dal quale ci attendiamo molti frutti. In un contesto interamente agricolo potete trovare decine di istituti superiori di pedagogia ma non una scuola di agronomia. E’ chiaro che gli studenti di pedagogia, una volta diventati maestri e professori potevano, all’epoca, sperare in uno stipendio statale, non oggi, quando il governo sovente manca ai suoi doveri fondamentali, tra gli altri quello di pagare i propri funzionari, tra essi gli insegnati. Molti insegnati e professori già oggi lasciano il “nobile lavoro” per rientrare al lavoro dei campi in modo da provvedere meglio alle necessità della famiglia. Ma per questo lavoro, tutto procede come all’antica, sono poche le conoscenze e le innovazioni. Rarissime le persone competenti. Allora ecco la nostra ferma intenzione di promuovere la creazione e lo sviluppo di una scuola (istituto superiore - secondario) di Agronomia. Già da anni p. Gianni incoraggia e sostiene concretamente la preparazione di insegnati qualificati a livello universitario, ed i primi frutti cominciano a vedersi: il prefetto, due insegnati, l’approvazione ufficiale dell’Istituto da parte delle autorità competenti.
Come ovunque, sono i parenti assieme ai loro figli, gli allievi, ed assieme ai professori ed il prefetto, che costruiscono le aule scolastiche; sono i parenti che raccolgono le contribuzioni per dare un piccolo premio agli insegnanti in attesa della meccanizzazione, ossia del riconoscimento di un salario da parte dello stato. E’ una scuola “delocalizzata” rispetto al modesto “centro” di Wamba, Isiro o rispetto al sedicente “centro” di Babonde (nel senso che parlare di Babonde come di un “centro” è in qualche modo inappropriato ed esagerato). A Yambenda abbiamo iniziato i lavori di costruzione in “duro” ossia in materiale durabile di fondazioni, muri di mattone e tetto di lamiera. A Dio piacendo sarà l’Istituto di Agronomia “Mangele”, grazie soprattutto alla generosità di una coppia di giovani sposi di Bologna che ha dirottato i regali di matrimonio dei parenti ed amici a questo scopo. La generosità non è mancata e le necessità saranno moltissime, ma l’importante è cominciare e noi speriamo di averlo fatto con il piede giusto. p.s. Grazie Gabriele e Mariadina.

mercoledì, novembre 05, 2008

Chi comanda la guerra?


Da più di un decennio oramai, è a partire dall’Est del paese che prendono origine instabilità e ribellioni armate. E’ a partire dalle provincie vicine alla nostra del Nord e Sud Kivu, che tutti i “liberatori” si affacciano sulla scena militare e politica portando con sé l’abituale sovrabbondante “prodotto” di vittime innocenti, di profughi, di distruzioni, aggiungendo miseria alla povertà, moltiplicando disperazione alla mancanza di prospettive per l’avvenire.
E’ la storia ed il dramma di questi giorni per decine e centinaia di migliaia di persone: fuga, fame, perdita di ogni bene, malattia, morte. Da anni un piccolo gruppo di ribelli, 1.500/2.000 soldati, tiene in scacco la più grande forza di pace dell’ONU (17.000 uomini dei quali l’80% in queste regioni). Ugualmente tiene in scacco l’esercito regolare di un paese sotto tutela internazionale che funziona in base ad aiuti esterni - quasi mai gratuiti - e ad una esponenziale corruzione interna.
Chi comanda la guerra? Ricco da morire il Congo e l’Est del paese alimenta e sazia l’appetito goloso dei paesi vicini; ricche buste (bustarelle) nutrono il silenzio o una indolente impotenza degli “eletti” al governo; taciti accordi e prezzi da pagare per guerre precedenti chiudono occhi e bocche di influenti diplomatici; progetti “geopolici” strumentalizzano e legano le mani alle agenzie di pace internazionali. E’ così che diamanti, oro, coltano, rame, uranio, legno pregiato e finalmente petrolio insieme a tanto altro ancora, producono la morte dei congolesi e la vita di altri. Quanti nuovi affamati delle risorse del Congo si affacceranno ancora? Sono essi che comandano la guerra e molto spesso non hanno volto anche se il “capo nemico”, il ribelle, si può chiamare per nome (Laurent Kunda, o Kony…), anche se si può far leva sulle differenze tribali e i possibili antagonismi. La guerra è comandata dagli “appetiti”. Un appetito saziato sempre e ad ogni costo, avvelena la vita e alla fine uccide. Saranno capaci gli uomini di educarsi all’astinenza? Ne saranno capaci se attarverso essa conquisteranno un bene più grande: la vita dei fratelli. Lo sapranno riconoscere?

Chiesa di mattoni?


C’era una canzone che andava di moda quando ero ragazzo, ma che oggi credo sia sparita dal repertorio dei “gruppi canto”, il cui ritornello diceva: “Chiesa di mattoni no! Chiesa di persone si!
Bene, a Babonde stiamo “bellamente” facendo il contrario: costruiamo Chiese. Una parrocchia missionaria, Babonde, con 41 villaggi. Di essi la più parte si incontra, celebra la messa ed in qualche caso fa scuola, in construzioni tradizionali. Il metodo impiegato è il medesimo che per la costruzione delle case. La tecnica tradizionale prevede l’intelaiatura di pali di legno infissi nel terreno, intrecciati e legati con corde ricavate dalle liane. Questo è il lavoro degli uomini. Per l’intonaco, prodotto con il terreno del luogo ed aggiunta di acqua – volgarmente chiamato fango – entrano in azione le donne. Infine di nuovo gli uomini con pali e corde per l’intreccio del tetto e le “tegole” prodotte alla machette con un legno dolce, chiamate “mapara”. Per coloro che desiderano una protezione più economica ecco le “ndelé” (intreccio di foglie di rafia, la palma che produce del buon vino – sinceramente io preferisco il distillato di questo vino), o ancora più economici, dei “pacchetti” di foglie o semplicemente dei fasci di lunghe erbe. Inutile dire che la “tenuta” all’acqua varia considerevolmente: 5/10 anni per le “mapara”; 6 mesi/un anno per le “ndele” qualche mese per le foglie o erbe. Occorre aggiungere che un migliore risultato si ottiene alimentando quotidianamente un fuoco all’interno della casa in modo da uccidere i numerosi insetti che si rifugiano e si nutrono del “tetto”. Uesto fuoco ha come inconveniente dei danni notevoli alla salute degli inquilini a livello di vista e di respirazione. Per le chiese il problema del fuoco non sussiste, ma quello della “durata” è sempre in agguato, molto spesso un colpo di mano alla “caduta precoce” delle costruzioni, è dato dalle termiti che mangiano dal di dentro l’intelaiatura di pali, o da forti raffiche di vento. Perché allora non pensare ad una chiesa di mattoni? E se attorno ad essa si concentrasse anche un nuovo impulso allo “sviluppo” sia della “qualità di vita” sia della forza della comunità cristiana? Due allievi muratori per ciascun villaggio che arrivano a Babonde per i primi rudimenti pratici – domani saranno gli esperti collaudati nel loro villaggio anche per la costruzione di scuole, ambulatori, case –; il lavoro comunitario dei cristiani per scavare le fondazioni, estrarre le pietre e la sabbia, pressare e cuocere i mattoni; l’entusiasmo e il coraggio di tutto un villaggio che si mobilita per un obbiettivo comune e che nella perenne ristrettezza economica minata da “urgenze” di ogni genere riesce a raccogliere del denaro per acquistare due tre sacchi di cemento… Per le lamiere del tetto si vedrà in seguito… qualcuno aiuterà.Chiesa di mattoni? Chiesa di persone? L’enigma permane. Tentare le due soluzioni nello stesso tempo resterà un azzardo? Ci dimenticheremo dei poveri? Oppure potremo dimostrare che esistono delle energie inesplorate che, ben indirizzate, potranno fare meraviglie in tutti i settori? Una risposta rapida non è possibile. L’Africa della foresta è l’Africa dei tempi lunghi. Qualche anno appena… e potremo fare verifica.