giovedì, gennaio 01, 2009

Il Natale e la donna africana


Il primo giorno dell’anno è dedicato alla Madre e dall’italia mi faccio eco di un bellissimo testo – che solo una donna avrebe potuto scrivere così bene. Da “Rabbunì” giornalino delle suore Francescane Missionarie.

Natale è ormai alle porte; le luci sono state accese con parecchio anticipo e il brillìo contagia piccoli e grandi; tutti siamo attratti da quel misto di letizia e di nostalgia che ondeggia nell’anima. Osservo la gente che affolla i negozi per l’acquisto dei doni e mi chiedo se fra tante persone qualcuna saprà ritagliare un tempuscolo per sé per ascoltare nel suo intimo quel sentimento indefinibile e intenso chiamato “attesa” e per chiedersi: “Ma io, aspetto? Cosa aspetto? Chi aspetto?”. La domanda s’impone perché l’uomo, suo malgrado, ha una sconfinata nostalgia di Dio. Sembra che oggi questo vada detto… sottovoce e invece è la notizia più sconvolgente e bella: Gesù, l’Emmanuele è Dio-con-noi. Mentre osservo con tristezza coloro che rischiano di festeggiare il compleanno… senza il Festeggiato, riaffiora alla mia mente una scena a cui ho assistito e che si è incisa in me.
Ero nel dispensario di Wasserà in Etiopia e quel giorno era dedicato ai bimbi denutriti; l’infermiera, Suor Lucia Zerbo, era pronta ad accogliere il centinaio di mamme che sarebbero andate per il controllo dei neonati. Tra le prime, giunte di buon ora, c’era una bimba che portava il fratellino sulla schiena. Entra dunque la bimba e si siede, composta, sulla panca. E’ sudata, ha attraversato parecchi campi e boschi di eucaliptus; il bimbo ha fame e cerca il seno, ma quasi percependo che quella piccola madre non ha latte per nutrirlo, le posa la manina sul petto come per accarezzarle il cuore. Le donne che attendono sono vivaci: parlano, ridono, si mostrano i loro figli; hanno indossato le vesti colorate, persino un po’ eleganti, perché Suor Lucia desidera che siano in ordine. Non fanno caso alla bimba: è frequente lì vedere sorelle appena maggiori occuparsi dei fratellini.
Arriva il suo turno e con grande assennatezza spiega che viene da una frazione lontana; la mamma ammalata non può camminare e, avendo udito che ci sarebbe stata la distribuzione del latte, ha portato il fratellino. Con delicatezza Suor Lucia lo visita: non ha la scabbia nè altre piaghe cutanee, non ha pulci penetranti; lo pesa; il bimbo è sano, pulito e ben nutrito. La piccola riceve i complimenti per la cura che ha di lui e, in dono, per lei, due confezioni di marmellata di arachidi e di biscotti vitaminizzati. Guarda incantata il suo piccolo tesoro. Suor Lucia le chiede il suo nome: “Zion”. Zion, per noi Sion, è il nome poetico di Gerusalemme, luogo santo della speranza profetica, luogo della promessa del Messia che verrà, terra della Vergine Maria che darà al mondo l’Emmanuele. Mi risuona nel cuore il grido del profeta:
"Risvegliati, rivestiti della tua forza, Sion! Mettiti le tue più splendide vesti, Gerusalemme, città santa! Scuotiti di dosso la polvere, alzati." (Is 51,17)
I miei occhi continuano a contemplare la Betlemme di Wasserà. Prima di uscire, Zion pulisce il nasino del bimbo con l’angolo dell’ampio velo, poi, con quel gesto veloce e preciso che si perpetua per le mamme africane dalla notte del tempo, si carica il fratellino sulla schiena; dà due piccole scosse come per assestare il peso e si lega il velo attorno ai fianchi annodandone ben stretti i lembi sul petto. Non c’è al mondo culla più anatomica e confortevole di quella. Infatti il piccino s’addormenta e reclina la testolina sulla spalla della sorella. E’ un Natale vivente.
La sua figura si perde tra la folla che, a quell’ora, si affretta verso il mercato vicino. C’è chi porta fascine, chi ceste di cavoli; chi anfore di creta seccate al sole, chi focacce di fibre di falso banano. Zion porta il bambino, o meglio, “indossa” il fratellino che fa corpo con lei. Sono un’unica persona. Da quando è nato non si è mai separata da lui, neppure quando bada le due pecore, unica risorsa della famiglia; neppure quando gioca a sassolini con altri bimbi, né quando sta sotto l’albero grande in mezzo alla piana per le lezioni del catechista. Lo cede alla mamma solo per il tempo della poppata e poi se lo riprende in groppa, "incollato" su quella rupe da cui potrà un giorno spiccare il volo per il viaggio della vita. Così sono cullati i bimbi africani: il corpo della loro madre è la terra reale dei loro primi tre anni. Ben al sicuro sulla loro schiena, portati nella sua stessa direzione, si trovano alla stessa altezza visiva, sono sempre "in mezzo" alla vita del villaggio. Non devono produrre calore, hanno quello della mamma e sono cullati dai ritmi atavici della quotidianità che li porta lentamente dentro il mondo per gustare le fatiche, i canti e gli odori della vita, da subito. Zion, pur così piccola, rivela già la vocazione privilegiata della donna: portare il peso della vita e dell’amore: nove mesi all’interno del proprio corpo e anni e anni, fuori da esso. Zion ha dovuto vincere in fretta il naturale egoismo dell’infanzia che desidera possedere la mamma solo per sé e avere l’esclusiva delle sue carezze, per sviluppare la generosità innata dell’indole femminile. Sempre la madre fa un passo indietro perché il figlio sia il primo, sempre perde un po’ della sua vita perché il figlio cresca. Essere madre: carico pesante di vulnerabilità e di gloria che rende la donna tanto rassomigliante a Dio Amore. Essere madre: un Natale sempre rinnovato. “Tu sei così piccola, eppure tu sei già icona della donna africana, anzi, della Donna Unica tra le donne, piccola Zion, grazie, perché tu illumini per noi il senso vero del Natale”. La santa Madre Maria, ha dato alla luce, nella nostra condizione umana, il Figlio dell’Eterno. L’Amore ha preso il nostro corpo, si è fatto visibile ma in così tanta umiltà e povertà da passarci accanto inosservato, senza che i nostri occhi riescano a riconoscerLo. Occorre la luce della fede e il ritorno silenzioso al desiderio del cuore: allora niente ci sembrerà tanto bello e urgente quanto fare spazio al Signore che tutto riempie di Sé e ci schiuderemo ad una sovrabbondanza di pace e di benevolenza per tutti; forse allora il Natale di Wasserà renderà più vero il nostro Natale.